Sono cresciuta in una cittadina dell’Oregon, Stati Uniti, dove tutti quelli che conoscevo parlavano solo e soltanto l’inglese. Quindi mi ci è voluto un po’ per rendermi conto che esistevano altre lingue. Trovando già sorprendente il fatto che altre persone avessero altre parole per dire le stesse cose, riuscivo a malapena a immaginare che le lingue straniere fossero tutt’altro che nuove parole con cui sostituire quelle inglesi. Verso la pubertà, l’età della presa di coscienza, cominciai a prendere lezioni di francese. Ricordo esattamente dove mi trovavo mentre l’insegnante spiegava che in francese gli aggettivi seguono i sostantivi e che “a green feather” diventa “une plume verte”. Per lo shock, la mia intera concezione della lingua cambiò per sempre.Ma quello era solo l’inizio. Ora, a qualche decennio di distanza, il fatto che le diverse lingue sono più che semplici insiemi di parole assemblate in modo diverso costituisce l’essenza del mio lavoro.
Non solo parole diverse e grammatiche diverse. Ritmi diversi. E abitudini diverse.
Oltre a dissentire su come si fa un buon piatto di pasta, sull’ora appropriata per prendere un caffè, su chi e quando è opportuno baciare sulle guance, italiani e americani non si trovano d’accordo neppure su cosa renda buoni una scrittura o un discorso a seconda dello scopo. Parte di questa etichetta viene assorbita inconsciamente, mentre altre abitudini sono infilate a forza nelle giovani teste, con la punta di molte penne rosse, da risoluti insegnanti d’inglese. Nella mia risuonano ancora le voci della professoressa Gauthier, del professor Davis e della professoressa Glasgow: fatevi venire un’idea, svolgetela, siate sintetici! Non ho mai frequentato le medie o le superiori in Italia, ma dopo quattordici anni di lavoro come traduttrice dall’italiano in inglese sono certa che questa precisa esortazione non viene impressa nel cervello dei giovani italiani.
“Come si dice ‘bla bla bla’ nella tua lingua?” ha due risposte certe: “Dipende” o “Non si dice”. Purtroppo, nessuna delle due va bene quando ti pagano.
Il contatto con la cultura italiana induce la maggior parte degli stranieri a baciare sulle guance, a dire “Ciao!” e a stringere mani, increduli, in posizione di preghiera. Noi traduttori, che leggiamo in italiano ogni santo giorno, dobbiamo stare attenti a non far filtrare quello stile nell’inglese.
Con il contributo dei miei fantastici colleghi, ho redatto un elenco molto generico con alcune abitudini diverse tra la scrittura italiana e quella inglese, per non dimenticare le differenze. Come nel caso delle “Parole moleste”, anche questo elenco va usato ricordando sempre che in traduzione ciò che realmente conta è il contesto, dall’inizio alla fine passando per quanto c’è nel mezzo. Questo contesto più ampio comprende il settore, i lettori e l’intento del documento. Le differenze che noto più facilmente riflettono la mia specializzazione in testi di marketing, blog, articoli di riviste e saggi accademici.
Paroloni
L’italiano, si sa, deriva dal latino. L’inglese è un ibrido dalle doppie radici, latine e germaniche. Il latino era la lingua del clero e dei colti, cosa ancora oggi riflessa dal fatto che le parole inglesi latineggianti sono quelle alte e le germaniche, che spesso significano più o meno la stessa cosa, ne sono la versione bassa e comune. [Esempi: “veracity” v. “truth”; “lateral” v. “side”; “verdant” v. “green”].
Tale differenza è una trappola per chi traduce dall’italiano all’inglese, perché moltissime parole italiane hanno un corrispondente inglese con grafia e significato identici o simili, ma un diverso registro (cioè il grado di formalismo del linguaggio).
Protagonista è “protagonist”. Tuttavia, due italiani che chiacchierano in treno possono benissimo riferirsi al “protagonista” del film appena visto, mentre se un anglofono infilasse in una conversazione informale “the film’s protagonist”, passerebbe per spocchioso (o raffinato, a seconda dei pregiudizi di ciascuno).
Eppure, per definizione, la traduzione riguarda la lingua scritta (per la lingua parlata il termine è “interpretazione”), dove i paroloni derivati dal latino potrebbero adattarsi perfettamente al contesto (in un saggio critico sulla teoria del cinema, per esempio, “protagonist” potrebbe essere proprio quello che ci vuole).
Milano, comunque la si chiami, è sempre Milano
Per ragioni a me ancora oscure, l’italiano detesta ripetere i nomi di persona e di luogo in un testo. L’inglese è disposto a scrivere “Milan” ogni singola volta che vuole riferirsi a Milano. L’italiano, invece, sottopone i lettori a miniquiz culturali definendo di volta in volta Milano “il capoluogo della Lombardia”, “la capitale italiana della moda”, “la capitale degli affari” e via dicendo. Tenendoci tutti sul chi vive e testando la nostra cultura generale.
Terrore del punto
“Mio Dio, quando finirà questa frase?” pensa chi è cresciuto a base d’inglese quando legge l’italiano. Se gli scrittori inglesi imparano a temere la frase fiume, ad alleggerire i periodi dalle parole superflue, l’ethos di buona parte della scrittura italiana è: più parole ci sono, più allegro e cordiale sarà il rapporto con il punto e virgola. Sono noti i casi di frasi italiane che occupano un paio di pagine. La fatica di una traduzione verso l’inglese comporta molto sfoltimento e la ristrutturazione delle frasi. In inglese, il significato pigiato in una frase italiana spesso è meglio spalmarlo in due o tre.
Unite i puntini
L’italiano crede nell’uso dei connettivi per spiegare il rapporto tra frasi o paragrafi consecutivi. L’inglese è più spesso a suo agio lasciando implicito il rapporto.
Più c’è, meglio è
La buona scrittura inglese di solito è chiara, stringata, snella. Come nell’architettura moderna, meno c’è, meglio è. Mai usare due parole quando ne basta una. Il superfluo è malvisto.
La scrittura italiana è un po’ come il cattolicesimo. Perché accontentarsi di un santo quando se ne possono avere cinquemila? Perché usare la fredda pietra quando esiste il mosaico dorato? Perché avere un Dio solo quando se ne può avere uno trino?
Direi che questa differenza rappresenta la sfida più grande per la traduzione verso l’inglese, perché l’italiano infila svolazzi, parole e informazioni, mentre nella maggior parte dei casi, l’inglese che rispecchia troppo da vicino lo stile italiano sembra troppo ampolloso e pesante. Tuttavia, quando scremiamo il testo per renderlo agile in inglese, dobbiamo stare attenti a non perdere anche il succo e il tono.
Hegel e i cavoli a merenda
I traduttori non sono sempre invitati (né disposti) a rielaborare la struttura complessiva di un testo. Le versioni inglesi dei testi italiani, quindi, conservano l’essenza del modo in cui l’italiano organizza l’esposizione delle idee. Io sono stata cresciuta (anzi, ingozzata) a base di “saggi descrittivi”, che richiedevano cinque paragrafi secchi e una struttura rigida come il righello degli insegnanti. Ci è stato insegnato che, anche per i saggi più lunghi, i principi (enunciazione della tesi, idea principale, paragrafi corroboranti, conclusioni) erano alla base della buona scrittura.
La struttura tipica dell’italiano è molto più fluida (pensate alle lampade anni Settanta con le bolle). La quantità di idee e riferimenti a filosofi morti è da preferirsi al modo in cui i pensieri sono collegati l’uno all’altro. Ciò può rappresentare una sfida vera e propria per un lettore anglofono troppo legato al testo, che implora di sapere cosa diavolo c’entri Hegel con i prodotti per la cura dei capelli.
Traduzione italiana: Stefania De Franco